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Monte Rosa: i miei primi 4000.

    Per gli amanti la montagna, arriva un momento in cui si comincia a posare gli occhi sulle pareti di roccia e sulle cime innevate con sguardo nuovo: non più vedendoli solo come splendidi fondali per le proprie passeggiate, ma anche come possibili terreni di gioco e di sfida.

    Se iniziate a provare questa sensazione e volete assaggiare il gusto dell’alta quota, il massiccio del Monte Rosa è un buon posto per cominciare. Il Monte Rosa non è, in realtà, una singola montagna, ma piuttosto di un comprensorio di alte vette e creste, molte delle quali superano i 4000 metri di altezza. Queste cime offrono all’alpinista anche percorsi di difficoltà elevata, tuttavia le loro Vie Normali seguono generalmente linee di salita molto abbordabili: tanto che, più ancora che per l’alpinismo, le loro nevi perenni sono un paradiso per lo scialpinismo.

    Da qualche tempo accarezzavo l’idea di salire questi monti, ma si sa, per certe cose ci vogliono il momento e le persone giuste.
    Il momento giusto si è presentato questa primavera, e piuttosto lontano dalle vette alpine: mi trovavo infatti in Toscana, dove ho trascorso gli anni dell’università e dove, dopo i miei anni da escursionista, la passione alpinistica si è finalmente accesa. Mi stavo recando sulle Apuane per una facile via di roccia (un’altra prima volta) insieme ad alcuni amici: tra questi, anche l’immancabile Vitaliano. Vitaliano è un ingegnere informatico che, superate le 50 primavere, ha deciso che il lavoro non è tutto ed ora dedica alla montagna ogni momento libero (ed anche un po’ di più). Chiacchierando, scopro che Vitaliano sta organizzando una gita sul Rosa insieme ad un plotone di suoi amici scialpinisti. Tre giorni a scorrazzare per vette e ghiacciai: prontamente chiedo di aggregarmi, anche se agli sci preferirò ramponi e piccozza.
    Il Rosa è inaspettatamente a portata di mano.

    Cime di 4000 metri impongono di essere affrontate con serietà: d’altronde, anche un pizzico di stile non guasta. Negli ultimi anni il mio modo di frequentare i monti è virato verso abitudini barbonesche: mentre gli sportivi della montagna abbracciavano un abbigliamento sempre più tecnico e fichetto, io facevo i conti con le mie finanze da studente e me la cavavo con vestiario economico e attrezzature prestate. Nelle settimane che precedono la gita mi decido finalmente a comprare un bel po’ di attrezzatura di cui ho sempre procrastinato l’acquisto: alla picca e ai ramponi che già possiedo si aggiungono uno zaino adatto, abbigliamento termico, scarponi da alpinismo serio. Ecco fatto: ora sembro un damerino d’alta quota.

    Arriva il giorno della partenza: siamo alla fine di giugno.
    Lasciamo Pisa il venerdì pomeriggio, galvanizzatissimi. Faccio conoscenza con i miei compagni: appartengono al Gruppo “La Focolaccia”, una compagine di scialpinisti che fa capo al CAI di Lucca, sebbene con spirito molto più anarchico e scanzonato di quanto non sia tipico delle sezioni del Club Alpino.
    Durante il viaggio inganniamo il tempo nelle solite interminabili discussioni, su quali siano i migliori materiali o quali le manovre su corda più efficaci per trarsi d’impaccio: ma in realtà pensiamo tutti a quello che ci aspetta. I più navigati pregustano il sapore di emozioni già note, ricordano le vette già salite, sperano di conquistarne di nuove per arricchire il loro personale carnet. Io, novizio delle alte quote ai miei primi “4000”, mi chiedo semplicemente come reagirà il mio corpo: se accuserò il mal di montagna o sarò uno dei fortunati che non soffrono l’altitudine, e fin dove riuscirò ad arrivare. Penso che se riuscirò a raggiungere la vetta di un solo 4000, tutto sommato, potrò già dirmi soddisfatto.

    In serata raggiungiamo la valle del Lys. Alcuni di noi dormono in un ostello a Lillianes (650 m s.l.m.), poco distante da Gressoney; l’appuntamento con tutto il gruppo è per l’indomani mattina agli impianti di risalita di Staffal, da dove parte la funivia che ci porterà direttamente sul ghiacciaio d’Indren.
    Ma ecco il primo inconveniente. Tutti i camminatori hanno dato forfait: il gruppo è ufficialmente composto da soli scialpinisti; io mi trovo ad essere l’unico “ramponatore” della compagnia.
    Bel problema: andarsene a spasso da soli sul ghiacciaio è sempre poco consigliabile, ma lo è ancor più in questo periodo dell’anno. Col caldo i crepacci cominciano ad aprirsi e i ponti di neve che li coprono sono sempre più instabili – pronti a trasformarsi in trappole infide e ad ingoiare l’incauto alpinista che ci metta sopra i piedi senza esser legato ad un compagno.
    Nella cabina della funivia guardo sconsolato la selva di sci che sovrasta le teste dei passeggeri: trovare dei compagni di ascensione rischia di essere un’impresa ardua; comincio a temere che la mia iniziazione alle alte quote debba concludersi ancora prima ci cominciare.
    Scruto i piedi di tutti quelli attorno a me: finalmente, tra tutti gli scarponi da sci, ne intravedo un paio da alpinismo. Anzi: due paia! O gioia o gaudio! Due potenziali compagni di cordata! Alzando lo sguardo noto che trattasi di potenziali compagne di cordata: ancora meglio.
    Con finta noncuranza mi avvicino, le studio e le abbordo senza ritegno.

    “Ciao! Scusate, siete sole?”
    “Beh, siamo in due: non è poco.”
    “Vero. I miei compagni di cordata invece hanno tirato il bidone, così io mi ritrovo qui solo come un bischero… Mi posso legare con voi?”
    “Ok! Ma tu hai esperienza di ghiacciaio?”
    “Beh… Più o meno, diciamo.”

    In effetti, tutta la mia esperienza di ghiaccio si limita ad alcune giornate di glaciospeleologia sul piccolo ghiacciaio dei Forni in Valtellina, e ad una salita invernale alla toscana Pania della Croce dove per poco non lasciai la buccia. Mi dico che è meglio non approfondire.
    E’ fatta, le ragazze accettano: sto per salire il mio primo 4000. A quota 3275 metri scendiamo dalla funivia e cominciamo a prepararci: imbraco, corda, picca, ramponi.
    Vitaliano mi si accosta: se ieri era un po’ dispiaciuto perchè rischiavo di trovarmi a vagare solo sul ghiacciaio, ora sembra provare un pizzico d’invidia per la mia compagnia di fortuna.
    Si vendica bassamente rimarcando la mia giovane età: “oh, legati bene, mi raccomando. Ragazze, ve la sentite di tirarvelo dietro? Guardate che il bamboccio è un novellino: tenetelo d’occhio…”.
    Lo squadro con sguardo velenoso mentre le fanciulle tentennano, ma alla fine partiamo: destinazione Cima Giordani, 4046 m.

    La Giordani è, bisogna dirlo, una vetta molto facile: dalla stazione della funivia, solo 800 metri e nessuna difficoltà tecnica separano il camminatore dalla cima. In effetti, più che di alpinismo in questo caso è forse più appropriato parlare di “escursionismo d’alta quota”. È comunque una buona occasione per rinfrescare le tecniche di progressione e provare le proprie capacità ed i propri limiti.
    Saliamo tranquilli e veloci. A mezza via si sfiora una formazione rocciosa che emerge dal ghiaccio, sovrastata da uno spesso strato di ghiaccio fossile: la forte escursione termica estiva ha fatto sì che si ricoprisse di sottili stalattiti di ghiaccio, che rilucono nella luce intensa della splendida giornata.
    Continuiamo a salire. Le gambe non dolgono, il fiato non manca: comincio quasi a credere che il mal di montagna mi lascerà in pace, invece…
    Intorno ai 3800 metri di quota comincio a sentire la testa leggera, come una leggera ebbrezza.
    A quota 3900 inizia il mal di testa, sempre più insistente.
    A 4000, a un passo dalla vetta, arriva anche la nausea.
    I 3900 metri di altitudine resteranno, anche nei giorni successivi, il limite oltre il quale la salita cessa di essere una gradevole scampagnata per trasformarsi in una lotta contro le ritorsioni del mio stomaco.

    Nonostante tutto raggiungiamo la vetta: nemmeno la nausea mi impedisce di godere il momento. Di fronte a me, il dolce declivio del ghiacciaio d’Indren appena percorso; alle mie spalle, centinaia di metri di rosse rocce strapiombanti. Alla mia destra, poco più alta, la Piramide Vincent; più lontano tante altre cime che non so riconoscere.
    Scattiamo le foto di rito sulle roccette sommitali, vicino alla madonnina di vetta; cerchiamo il libro delle salite, purtroppo sepolto dalla neve, poi cominciamo la discesa.
    Più a valle ci dividiamo. Mariagrazia ed Elena, le mie compagne di cordata, si avviano verso la funivia che le riporterà a valle; io invece inizio a tagliare il ghiacciaio in direzione del rifugio Mantova (3498 m).

    Fa caldo: un caldo feroce, acuito dal riflettersi del sole sul ghiacciaio; sebbene sia solo il primo pomeriggio la neve è molle e cede ad ogni mio passo, facendomi sprofondare fino all’inguine; piccole slavine di neve e sassi mi lambiscono in modo molto poco gradevole; la stanchezza rende il mal di testa e la nausea ancora più insistenti.
    Sudato e traballante, raggiungo il Mantova e crollo: mi siedo all’ombra con la testa tra le mani, provo a non pensare a nulla, ma alla fine il mio stomaco prevale e devo correre a vomitare sulla neve.
    Con i miei amici si era stabilito di incontrarci poco più in alto, al rif. Gnifetti (3647 m): sebbene non sia che una passeggiata di un quarto d’ora, non sono assolutamente in condizione di raggiungerli. Li avviso dal telefono del rifugio: stanotte dormo qui.

    Bastano tuttavia poche ore di sonno per ritemprarmi: prima di cena il mal di testa è molto diminuito, l’umore migliorato e comincio quasi a pensare che domani resterò in quota, chissà che non riesca a fare ancora qualcosa.
    Al rifugio conosco Emanuele: anche lui è solo, ma lui è qui per allenarsi in vista di una spedizione nel Tajikistan, dove lo attendono due 7000 dal nome impronunciabile che tenterà di salire in solitaria. Scopro con stupore che ha 25 anni, solo di uno più vecchio di me. Decidiamo che domani ci legheremo insieme.

    Così facciamo: sveglia alle 4 e mezza, un po’ seccati perchè al rifugio non preparano colazioni prima delle 5. Ci attrezziamo. Gli scarponi, anche se ancora umidi dal giorno prima, mi fasciano i piedi con una stretta già familiare, direi rassicurante.
    Fuori dal rifugio comincia a schiarire. La temperatura è mite: nonostante l’altitudine, sfiora appena lo zero. Tra poche ore il sole sarà alto. Il cielo è terso: si prospetta un’altra giornata bollente.
    Veloci ci avviamo lungo il ghiacciaio Garstelet. Superiamo il rifugio Gnifetti, raggiungiamo la zona dei seracchi, ci leghiamo e continuiamo tranquilli verso il colle del Lys. Ci fermiamo poco più basso, al colle Vincent: da qui si possono raggiungere la piramide Vincent, il Corno Nero, il Balmenhorn – non abbiamo che l’imbarazzo della scelta.
    Io ambisco al Corno Nero (4322 m): l’ho visto in fotografia e mi ha rapito, col bel versante di rocce nere a cui deve il nome e il ripido versante nevoso della via Normale, comunque abbordabile ma nettamente più “alpinistica” rispetto a quelle delle vette vicine.
    Dunque puntiamo verso il Corno, ma esso è ancora in ombra ed Emanuele è stanco e infreddolito: accusa i postumi delle estenuanti salite di allenamento dei giorni precedenti.
    A malincuore deviamo verso la Vincent, meno ripida e già esposta al tiepido primo sole. In vetta (4215 m) non ci attendono croci, né statue, né tumuli di rocce: troviamo invece una bella merda congelata, di dimensioni sovrumane ma inequivocabilmente umana, lasciata da qualche raffinato alpinista ad imperitura memoria del fatto che, è il caso di dirlo, gli stronzi si trovano anche nei luoghi più remoti.
    A parte questa nota fecale, il panorama è splendido e ce lo godiamo da soli per qualche minuto; poi un’altra cordata sopraggiunge, giusto in tempo per scattarci una foto con la cresta dei Lyskamm, la Parrot e infinite altre vette come sfondo.

    La salita alla vetta ha rianimato Emanuele, che propone di concatenare il Corno Nero e magari anche il Balmenhorn, “che tanto è di strada”. La proposta potrebbe sembrare azzardata al lettore che non conosca la zona: come, concatenare tre 4000 come niente fosse? In realtà le tre vette sono davvero vicine e il loro concatenamento è più che fattibile. Purtroppo, però, le parti sono ora invertite: Emanuele è rinvigorito, mentre io ho superato il fatidico limite dei 3900 e devo scendere a patti con le mie budella. Con rammarico ci limitiamo al Balmenhorn (4167 m): Emanuele sale sulla cima, che ospita un piccolo bivacco e la statua del Cristo delle Vette (di dubbio gusto). Io preferisco fermarmi pochi metri sotto la vetta, a meditare sull’ingiustizia del mal di montagna. Mi consolo con lo sciocco pensiero che “tanto non è nella lista dei 4000 ufficiali”, ma so che sto mentendo a me stesso: beh, sarà per un’altra volta. Le montagne hanno questo, di bello: non scappano.

    La discesa sotto un sole rovente ci riporta al Mantova, dove finalmente reincontro i miei compagni: questa la notte dormiremo tutti qui. Mi prendono in giro: “ti credevamo moribondo, invece pare che le gambe ti reggano ancora, eh?”
    In effetti è frustrante come, sotto i 3900 metri, il vigore mi torni in un attimo: tanto che, nel tardo pomeriggio, accompagno nuovamente Emanuele sul ghiacciaio. Dovendo patteggiare con la vile pecunia dormirà in tenda sul ghiacciaio: potrà così affrontare di buon’ora tutta la traversata che, passando attraverso la seraccata sotto al “Naso” del Lyskamm, conduce fino al rif. Quintino Sella.
    Dopo averlo aiutato ad allestire il campo e avergli augurato la buona fortuna torno al rifugio.

    Eccomi di nuovo solo. Ora che mi sto finalmente acclimatando alla quota mi spiace che domani pomeriggio dovremo già scendere a valle, ma spero di concludere in bellezza salendo almeno una vetta ancora.
    Riprende dunque la caccia ai compagni di cordata: conosco Luca e Stefano, genovesi, che però vogliono raggiungere il rif. Regina Margherita, in cima alla punta Gnifetti. Coi suoi 4554 metri, la Gnifetti è la quarta più alta vetta del massiccio. Sono un po’ indeciso: ce la farò, o il mio stomaco si ribellerà ancora?
    Decido di provare. Oltre tutto, di primo acchito, i miei compagni mi sembrano due brocchi: sono sicuro che scoppieranno prima ancora del colle del Lys, ed io potrò così salire con comodo il mio amato Corno Nero.
    Il mattino dopo, dopo una partenza titubante, i due maledetti liguri si rivelano invece infaticabili e insensibili all’altitudine. In un lampo raggiungiamo il colle del Lys. Comincio ad accusare l’altezza, ma da una cordata di passaggio ricevo due provvidenziali aspirine che mi permettono di gestire la nausea.
    Superiamo il Colle, camminiamo all’ombra della punta Parrot e dei suoi magnifici seracchi sospesi.
    Il cammino, dopo un tratto in discesa, riprende a salire. La pista è molto ben battuta: la punta Gnifetti attrae molti. Anche oggi, il ghiacciaio è punteggiato di numerosi alpinisti che, con o senza sci ai piedi, tentano di raggiungere la vetta.
    Ora possiamo vederla, alta di fronte a noi: sopra di essa, come appollaiata, la mitica Capanna Margherita, il rifugio più alto d’Europa.
    Al colle che separa le vette Gnifetti e Zumstein ci fermiamo qualche minuto. Ce lo possiamo permettere: siamo stati veloci. Luca e Stefano si godono il panorama, io tengo a bada il mio stomaco. Ripartiamo e affrontiamo le ultime decine di metri: qui la pista sale a tornanti talmente ripidi che gli sciatori hanno qualche difficoltà e si forma un po’ di ingorgo.
    Finalmente sbuchiamo in cima: è piccola, ma non così acuminata come sembrava vedendola dal basso. La Capanna Margherita la occupa quasi per intero: questo famoso rifugio fu inaugurato nel 1893, quando la stessa regina Margherita, per l’occasione, vi salì con un seguito di guide, portatori e dame di compagnia.
    Da allora la capanna è stata ampliata ed ammodernata: oggi ospita una stazione meteorologica, un laboratorio medico per lo studio degli effetti dell’altitudine sull’organismo umano ed è addirittura dotata di una connessione wireless.
    Luca e Stefano entrano, io preferisco stare all’aperto: gradirei non essere ricordato come quello che ha vomitato nella Capanna Margherita e per stavolta mi limito a guardarla da fuori.
    Mangiamo un boccone prima di affrontare la discesa: i miei compagni, da bravi liguri, sfoderano dallo zaino due bei pezzi di fugàssa, mentre io li guardo con invidia e mi faccio bastare un paio di biscotti.
    Il tempo continua a sorriderci; il panorama è, come si suol dire, mozzafiato. Nel cielo terso si ergono attorno a noi un mare di cime: vicinissima, appena più alta della Gnifetti, la punta Zumstein (4563 m) e la sua cresta Nord stuzzicano la nostra ambizione alpinistica. Ci tratteniamo: per oggi un 4000 è sufficiente.
    La discesa è rapida quanto la salita, ma più sofferta a causa del caldo: in soli tre giorni di permanenza ho visto aprirsi diversi seracchi; la progressione in cordata, che fino a due giorni fa sembrava una scomoda formalità, ora è certamente necessaria.
    Dove ieri sono passato senza problemi, ora un ponte di neve ha ceduto e si è aperta una fessura lunga e sottile che superiamo d’un balzo, uno a uno, con la corda ben tesa.
    Una volta giunti al Mantova mi accomiato dai miei compagni di cordata e scappo verso la funivia: gli amici scialpinisti della Focolaccia mi stanno già aspettando a valle. Il mio primo blitz nelle alte quote è così concluso: ma le emozioni e le visioni di questi giorni mi riempiranno la mente per i mesi a venire. Ancora sulla funivia, sto già meditando di tornare: con una migliore acclimatazione all’altitudine potrei addirittura sfruttare il bivacco del Balmenhorn come campo base avanzato, così da chiudere il conto con Zumstein e Corno Nero…

    Alla prossima. Per stavolta, può bastare.

    Le foto in cui appaio scattate sul ghiacciaio sono di Mariagrazia e/o Elena, quella scattata alla Capanna Margherita è di un anonimo compagno di cima.