Trekking nei luoghi più spettacolari del Levante Ligure: sei giorni tra Camogli e Portovenere
[Fotografie di Laura Ermert]
La Liguria è una terra in equilibrio: una stretta striscia di terra in equilibrio tra cielo e mare. È una terra di equilibri: persino uomo e natura, talora, sembrano averne trovato uno. Terrazzamenti incisi nelle colline, borghi aggrappati alle scogliere caratterizzano la Riviera di Levante, che si stende a est di Genova. Ho camminato per sei giorni, zaino in spalla, attraverso alcuni dei luoghi più spettacolari di questa costa, dal promontorio di Portofino alle Cinque Terre. Mi ha accompagnato in questa avventura Laura, splendida compagna di sentiero. Questo è il racconto del nostro viaggio.
Primo giorno: Camogli-San Fruttuoso-Portofino (km 7,6+5,1)
Il nostro cammino inizia a Camogli: lo raggiungiamo in treno da Genova, distante poco più di mezz’ora. Fuori dalla piccola stazione, il paese ci accoglie col suo profumo marino.
Il borgo è composto di pittoresche case dalle tinte pastello, tipicamente accostate le une alle altre di fronte al mare. La promenade, le botteghe, l’atmosfera mi ricordano le stampe d’inizio secolo, di quando le famiglie borghesi andavano in riviera a fare i “bagni di sole”. Noi siamo molto più alla mano: per pranzo, prima di incamminarci, decidiamo di battezzare l’inizio della nostra spedizione con grossi tranci di focaccia ligure, i primi della lunga serie che divoreremo nei prossimi giorni. Mangiamo passeggiando, indugiando con lo sguardo sulla Basilica di Santa Maria Assunta, quasi proiettata sul mare; sul castello della Dragonara; sui turisti, sorprendentemente pochi per essere oggi Venerdì Santo. Ci dirigiamo quindi all’estremità orientale del paese, al termine del carrugio dove, oltre il parcheggio, inizia il sentiero che ci porterà a Portofino: la nostra destinazione per questa prima giornata di cammino.
Il sentiero inizia con una scalinata, che diventerà un leit motif di questi giorni liguri. Il tragitto è ben segnato ed indicato anche da cartelli lungo il percorso; è bene sapere, tuttavia, che in tutto il promontorio di Portofino e in buona parte del Tigullio non è usata la nomenclatura CAI, bensì quella FIE: ovvero un codice di triangoli, rombi e altre figure geometriche. Il nostro sentiero è indicato da due pallini rossi affiancati: ci accompagnerà fino a Portofino. A poca distanza da Camogli si raggiunge la Chiesa di San Rocco, da cui è possibile proseguire lungo due vie alternative: si può continuare a seguire i due cerchi rossi pieni, oppure scegliere la variante più alta e scoscesa ma più facile, che passa a Nord del Monte di Portofino ed è indicata da un cerchio rosso vuoto. Entrambe si ricongiungono a metà del tragitto per Portofino, presso l’Abbazia di San Fruttuoso.
Decidiamo di continuare a seguire i due cerchi rossi pieni, anche se il sentiero è indicato come “molto impegnativo”: abituati ai sentieri alpini, siamo un po’ dubbiosi che luoghi ameni come questi possano ospitare sentieri realmente difficili. In effetti, fino agli scogli di Punta Chiappa la via risulta piana e facile; oltre diventa più ardua. Il tratto tra Punta del Buco e Valla Cava dell’Oro è davvero impegnativo: sulla mappa, la linea del sentiero diviene tratteggiata; nella realtà il sentiero scompare per cedere spazio a rocce calcaree lisce e ripide, sulle quali, sbilanciati dai pesanti zaini, dobbiamo procedere con grande attenzione. Sono state approntate robuste catene che aiutano e rassicurano, ma si procede pur sempre su tratti scoperti e a picco sul mare: le onde spumeggianti, in questi momenti, ci sembrano incredibilmente vicine, pur essendo oltre 200 metri più in basso; il loro rombo, cui prima non facevamo caso, diviene un poco inquietante.
Superato questo tratto, incredibilmente spettacolare ma sconsigliabile a chi soffra di vertigini, la via torna rilassante: un sentiero ben battuto, immerso nella profumata macchia mediterranea, conduce fino all’insenatura che ospita il monastero benedettino di San Fruttuoso. Questa piccola baia è raggiungibile solo a piedi o, quando il mare lo permette, coi traghetti che collegano Camogli e Portofino. Noi vi siamo arrivati nel tardo pomeriggio, in un giorno in cui le onde erano troppo forti per permettere l’attracco dal mare; l’Abbazia medievale si è mostrata solo per noi, illuminata dal sole calante; accanto a lei, la tozza torre edificata dalla famiglia Doria nel ‘500 continua ad ergersi, pronta a servire da rifugio in caso di assalto da redivivi pirati barbareschi; a separare i due edifici dal mare, solo la piccola spiaggia di sassi battuta dai frangenti. L’unica macchia in questo luogo incantevole è un brutto edificio rosso appena edificato, senz’altro rispettoso di qualche assurdo piano regolatore ma privo tanto di buon senso quanto di buon gusto (non dimentichiamo che questa zona è protetta in quanto paco naturale). Quando decidiamo di lasciare questo luogo è piuttosto tardi: gli zaini pesanti e le frequenti pause contemplative fanno sì che i nostri tempi di percorrenza dei sentieri siano quasi doppi rispetto a quelli indicati. Quando partiamo da San Fruttuoso sono già le sei: pur affrettando il passo lungo il facile sentiero, arriveremo a Portofino solo con il buio, alle otto passate. Quando finalmente arriviamo a destinazione, non degnamo quasi di attenzione il paese: siamo troppo stanchi dalla lunga camminata; i nostri occhi per oggi hanno visto paesaggi mozzafiato a sufficienza. Non pensiamo ad altro che a raggiungere la vicina Santa Margherita in autobus, e da qui, in treno, Zoagli, dove ci aspetta un bel piatto di trofie al pesto, un agognato bagno caldo e un lungo sonno.
Un consiglio ai camminatori: se vi trovate a percorrere l’acciottolato che conduce a Portofino dopo il tramonto, cercate di far percepire la vostra presenza: così terrete a distanza i cinghiali, evitando spaventi a voi e a loro.
Secondo giorno: Moneglia-Deiva Marina (6 km)
Nonostante la rigenerante dormita e l’abbondante colazione all’Hotel Zoagli, al mattino ci sentiamo ancora stanchi dalla lunga camminata di ieri: decidiamo che questa sarà una giornata più riposante. Passeggiamo per il borgo, godendoci il sole che fa capolino dalle nuvole, ed osserviamo il mare mosso: nella notte, le onde sono state tanto violente da costringere gli abitanti a riparare le barche fin sulla piazzetta, in realtà molto vicina alla spiaggia. Prendiamo il treno e superiamo Chiavari, Lavagna e Sestri, aree abbastanza urbanizzate, per raggiungere Moneglia, a circa 25 km da Zoagli. Moneglia è una cittadina senza grandi attrattive; ci incamminiamo dunque in direzione di Deiva Marina, con l’obiettivo di raggiungere a piedi il paese di Framura. Da Moneglia bisogna seguire per un tratto la strada asfaltata, fino alla frazione di Lemeglio: da qui, fortunatamente, inizia il sentiero vero e proprio. Il percorso è carino ma non ci entusiasma: la tappa di Portofino ci ha resi esigenti.
Lungo il sentiero
Il sentiero sembra il letto di un ruscello in secca, inciso in mezzo ad una inestricabile boscaglia: «comincio a capire come ha potuto Cosimo vivere tutta la vita senza mai scendere dagli alberi», dice Laura. Parla del Barone Cosimo Piovasco di Rondò, il protagonista del romanzo “Il Barone Rampante” che il suo autore, Italo Calvino, ambientò proprio nella Liguria del ‘700.
Raggiungiamo Deiva Marina dopo circa 6 km di cammino. Che delusione! Il paese non ha nulla a che vedere con i luoghi speciali che abbiamo visitato nella tappa precedente: è un’accozzaglia di brutte case, dai cui tetti si erge una quantità indescrivibile di antenne televisive di ogni foggia.
Il rio Sorba attraversa l’abitato: l’alveo è sovrastato da due ponti di cemento, ed è segnato da lordure portatevi probabilmente dalle alte maree e dalle mareggiate: tuttavia esse non possono essere rimosse, perchè la foce risulta essere una riserva riproduttiva per gli uccelli… A quanto pare, non sempre l’equilibrio che sembra esistere tra uomo e natura è rispettato.
Stanchi e abbacchiati, decidiamo di raggiungere Framura in treno con l’idea di passarvi la notte. Tuttavia, a Framura scopriamo che il paese propriamente non esiste: esso è costituito da cinque frazioni sparse per la collina che sovrasta la stazione, tutte abbastanza distanti se si deve contare solo sui propri piedi. In nostro soccorso giunge l’impiegata dell’ufficio informazioni (ce n’è uno praticamente in ogni stazione), che fornisce prontamente tutti gli indirizzi adatti per due viaggiatori squattrinati: ostelli, campeggi… Optiamo per raggiungere Levanto, dove pianteremo la tenda.
Vi arriviamo al tramonto, e facciamo in tempo a vedere gli ultimi surfisti che sfruttano i cavalloni residui della mareggiata, qui particolarmente adatti per compiere le loro evoluzioni.
Terzo giorno: Levanto-Vernazza (11,5 km)
Con questa tappa entriamo nel vivo delle Cinque Terre, ovvero i cinque borghi marinari di Monterosso, Vernazza, Corniglia, Manarola e Riomaggiore: famosi e belli almeno quanto il promontorio di Portofino, sono anch’essi protetti dall’omonimo Parco Naturale e sono stati qualificati come “Patrimonio dell’Umanità” dall’UNESCO. Dopo aver smontato la tenda, lasciamo Levanto sotto un cielo carico di nubi; giusto il tempo di superare le mura dell’antico castello e di avviarci verso Monterosso, ed inizia a piovere: non smette fino al nostro arrivo a Monterosso, la più occidentale delle Cinque Terre, che raggiungiamo dopo tre ore ed otto chilometri di cammino.
Fortunatamente abbiamo le cerate, ed il sentiero CAI numero 1 che stiamo seguendo, oltre a non presentare grandi dislivelli, si snoda in gran parte in un bosco di pini marittimi che ci offrono protezione.
Poco prima di Monterosso, venendo da Ovest, una brevissima deviazione permette di raggiungere il belvedere sopra Punta Mesco (314 m. slm): da qui lo sguardo spazia su tutte le Cinque Terre fino a Portovenere ed all’isola del Tino. In questo punto privilegiato fu edificato, nel XIV sec., l’eremo di S. Antonio, di cui sopravvivono le rovine di un portale e di un’abside: evidentemente, ai monaci piaceva meditare godendo di una bella vista; sembra che, per la visuale di cui godevano, fu affidato loro il compito (retribuito) di “vedette” per segnalare a Monterosso l’eventuale avvicinamento di pirati saraceni.
Quando giungiamo a Monterosso la pioggia ci dà finalmente tregua: mangiamo un panino sulla spiaggia guardando i gabbiani, che si scaldano sotto un timido sole. È la domenica di Pasqua: dopo giorni di solitudine, in cui non incontravamo altri se non sparuti escursionisti tedeschi, improvvisamente ci ritroviamo immersi nella bolgia di turisti pasquali. Fino alla tappa precedente avremmo potuto credere di essere in una enclave tedesca; ora, intorno a noi non ci sono che famiglie milanesi e bergamasche. Decidiamo, abbastanza traumatizzati, di fuggire quanto prima verso Vernazza.
Le Cinque Terre sono collegate tra loro da due sentieri, la cui numerazione CAI è rispettivamente 1 e 2. Il sentiero 1 si trova più in alto, ha dislivelli maggiori ed è immerso nel bosco; il sentiero 2, invece, è più vicino al mare, ha dislivelli assai minori ed è più panoramico: per queste sue caratteristiche è quello preferito dagli escursionisti nonché dai turisti, che spesso lo affrontano senza la necessaria preparazione (anche se semplice è pur sempre un sentiero, che richiede un minimo di allenamento ed abbigliamento consono). Inoltre, di solito l’accesso al sentiero 2 è a pagamento: è necessario acquistare la “5terre Card”, che permette di accedere al sentiero nonché di usufruire, senza ulteriori spese, degli autobus di collegamento del parco nazionale. Optiamo per il sentiero 2: fortunatamente, a causa del maltempo del mattino, gli escursionisti sono pochissimi; inoltre gli addetti del parco hanno dato forfait, esponendo un cartello che sconsiglia il percorso per il rischio di “scivolare”. In questo caso interpretiamo giustamente il cartello come un avviso diretto ai soli turisti pasquali, che si improvvisano escursionisti una volta l’anno: noi, forti delle nostre suole in Vibram®, ce ne infischiamo e passiamo gratis.
Camminiamo tranquilli su uno splendido sentiero illuminato da un sole redivivo: presto fa abbastanza caldo da togliere giacche e maglioni e procedere in maglietta. All’odore di pioggia tornano ad affiancarsi i profumi delle erbe aromatiche. Arriviamo a Vernazza al tramonto: è un minuscolo borgo di case colorate, sovrastato dall’immancabile torre-castello risalente al tempo dei pirati saraceni. Le nubi hanno spremuto tutta la pioggia che avevano nella mattinata e ormai scompaiono, sostituite dalla luce radente del sole che colora ogni cosa di arancione. L’atmosfera è romantica, che più romantica non si può, e i vicoletti e la piazzetta pullulano di coppiette a braccetto (mi si perdoni la sovrabbondanza di vezzeggiativi, ma per descrivere Vernazza al tramonto non c’è altra via). Persino io e Laura, duri camminatori rotti ad ogni fatica, ci lasciamo coinvolgere dall’atmosfera, e ci mettiamo a cercare un posto per dormire qui. Impossibile: consci del loro vantaggio, gli innumerevoli affittacamere non cedono a nessuno che voglia fermarsi meno di due notti. Io e Laura decidiamo che, per quanto ci riguarda, le loro camerette possono anche restare vuote: saltiamo sul treno e torniamo a Levanto, nello stesso campeggio del giorno prima, per ripiantare la tenda… Dopo averla scarrozzata inutilmente per tutto il giorno.
Quarto giorno: Vernazza-Corniglia-Manarola (6 km)
Da Levanto ci spostiamo nuovamente a Vernazza in treno, per riprendere il cammino da dove l’abbiamo interrotto la tappa precedente. Stavolta a Vernazza ci accolgono mare mosso, sole splendente, tanta gente: l’atmosfera intima della sera precedente è scomparsa, in questo lunedì di Pasquetta una bolgia di turisti di ogni Paese soffoca le vie del borgo. Gli affittacamere che solo ieri sera ci snobbavano oggi si svendono, cercando clienti fin dalla stazione: l’impressione è abbastanza squallida, e mi tolgo la sciocca soddisfazione di farlo notare ad uno di loro. Proseguiamo lungo il sentiero numero 2 per raggiungere Corniglia e Manarola; oggi il tempo è bello e i camminatori abbondano, così riaprono magicamente anche le biglietterie che controllano l’accesso al sentiero: stavolta ci tocca acquistare la CinqueTerre Card giornaliera, del costo di 5€ a testa.
Questo tratto del sentiero 2 è chiamato “Sentiero Azzurro” o “Sentiero dell’Amore”, che prosegue con la più famosa “Via dell’Amore” che collega Manarola a Riomaggiore. La maggior fama della via dell’Amore si deve alla sua spettacolarità (in alcuni tratti è letteralmente scavata nella scogliera) ma soprattutto alla sua facilità (è una vera e propria strada pedonale). Il Sentiero dell’Amore richiede un minimo di sforzo in più, ma in cambio regala molto: gran parte di esso sfrutta le cruëze, ovvero dalle mulattiere usate dai contadini per raggiungere i loro terrazzamenti; si attraversano così uliveti e vigneti, costeggiando secolari muri a secco costruiti a sostegno delle coltivazioni; l’olfatto gode dei profumi dei cespugli e del mare, mentre lo sguardo stupisce di fronte all’enorme opera di terrazzamento che ha domato le ripide colline, rendendole terreno coltivabile. La bellezza del cammino è stata guastata dalla folla di camminatori improvvisati, chiassosa e fuori posto, con i vestiti della festa e le calzature di vernice, in gran parte insensibile all’unicità del luogo e attenta solo a non sporcarsi le scarpe. Dopo i giorni trascorsi a camminare in eremitica quiete, questa incursione indelicata è per me e Laura una sofferenza e trasmette tensione anche tra noi.
Diversamente dagli altri quattro borghi, Corniglia si trova abbastanza in alto rispetto al mare. L’estremità del carrugio che dà sul mare termina in una terrazza, da cui la vista spazia a sinistra fino a Portovenere, a destra fino a Punta Mesco, di fronte sul mare argentato; il belvedere si trova su una parete di roccia verticale da cui i gabbiani si lanciano in lunghe planate: forse sperano in qualche premio commestibile da parte nostra, che li guardiamo rapiti e un po’ invidiosi.
Da Corniglia a Manarola, il sentiero è vittima di grave incuria: ampio e praticabilissimo, è però rovinato da cadenti muretti in cemento, rifiuti edili, baracche che in tempi remoti furono probabilmente cabine balneari. Il contrasto con il tratto precedente è quasi incredibile: troviamo ingiusto e assurdo che il Parco Nazionale permetta una situazione di simile degrado, che sarebbe così facile risolvere grazie alle abbondanti entrate che il turismo internazionale porta a questi luoghi unici. Finalmente giungiamo a Manarola, che ci accoglie con la sua posizione protettiva, incuneata tra due colline e il mare. Con i piedi stanchi e gli zaini pesanti raggiungiamo l’Ostello, in cima al paese, accanto alla chiesa. Le luci del tramonto ci rinfrancano da questa giornata di contraddizioni: piano piano ritroviamo il sorriso, insieme all’equilibrio che tra noi si era incrinato.
Quinto giorno: da Riomaggiore a Portovenere (13 km)
Il nostro cammino si avvicina al termine: oggi raggiungeremo la nostra meta finale, ovvero Portovenere, la cosiddetta “Sesta Terra”. Memori della giornata precedente, preferiamo evitare la Via dell’Amore: la folla non fa bene al nostro buon umore. Raggiungiamo dunque in treno Riomaggiore, borgo quasi verticale, apparentemente in bilico tra la scogliera e le onde: vien da chiedersi come facciano i suoi abitanti a dormire sonni tranquilli, soprattutto in giornate come queste in cui il mare sembra voler strappare le rocce dalla loro sede.
Lasciamo Riomaggiore lungo il sentiero CAI 3a. Una lunghissima scalinata si inerpica tra i terrazzamenti: su uno di essi incontriamo un contadino del luogo che si è improvvisato barman, e in un baracchino propone vino e limoncello agli escursionisti mentre il suo stereo pompa gansta rap. La scalinata sbocca sulla S.S. 370, che va percorsa per un breve tratto: il sentiero quindi rientra nella macchia e conduce al Santuario della Madonna di Montenero, che domina Riomaggiore dall’alto. Dal santuario si può scegliere il sentiero 3, più alto, oppure proseguire lungo il 3a, che in questo tratto diviene una stretta strada carrozzabile immersa nel bosco, pratica per il viandante stanco. Entrambe le varianti conducono al “Telegrafo” (513 m): si tratta di un bar/ristorante all’incrocio di due strade minori, che lo collegano con la Spezia e col paese di Biassa. Noi proseguiamo lungo il sentiero, che procede tra i pini marittimi.
Per la prima volta, isolati dagli alberi, ci rendiamo conto di non sentire più il rumore del mare: questo suono ci ha accompagnato ininterrottamente per giorni, tanto che ne prendiamo coscienza solo ora che non giunge alle nostre orecchie. Ai piedi di alcuni pini vediamo delle macche bianche: neve! Pare che la fredda pioggia che ci ha colti due giorni fa presso Monterosso, qui sia stata ancora più gelida. Il sentiero raggiunge dunque il suo punto più elevato (570 m). Alla nostra sinistra si apre all’improvviso la vista della baia di La Spezia e la diga foranea di Cadimare; a destra, oltre i pini e qualche ulivo, solo il mare. A mezza strada per Portovenere si incontra il paese di Campiglia: da qui in poi, il sentiero scende di quota offrendo una vista spettacolare sulle bianche scogliere che precedono le isole di Palmaria e del Tino. Finalmente avvistiamo il castello che sovrasta Portovenere, e prima ancora, all’estremità di un istmo di roccia, la bella chiesa di S. Pietro.
Ci sistemiamo nel nuovissimo ostello, proprio a fianco del Grand Hotel: dalla finestra della nostra stanza vediamo tutto il paese, con la famosa “Palazzata” che lo caratterizza. La sera ci dedichiamo all’esplorazione del borgo, incredibilmente deserto dopo il fine-settimana pasquale: al ristorante Medusa, dove ci fermiamo a cenare, siamo gli unici avventori.
Sesto giorno: la partenza.
Il giorno della partenza è sempre un po’ duro: cerchiamo di ammorbidirlo con un’ultima passeggiata sull’isola della Palmaria. Ci conduce all’isola una specie di marinaio dall’aria selvaggia con la sua barca-taxi: allo sbarco ci saluta con un «pagate al ritorno, ragazzi», che detto da lui suona un tantino ricattatorio… In realtà il nostro Caronte si rivelerà puntualissimo e di poche pretese. Il giro dell’isola richiede un paio d’ore. Di nuovo, persino negli spazi ristretti dell’isola ci imbattiamo negli ambienti più diversi: boscaglia di ginestre, arbusti aromatici, lecci, rocce sedimentarie che nei loro strati piegati recano il marchio di burrascose vicissitudini geologiche.
Camminare senza i nostri enormi zaini per la prima volta dopo sei giorni è una strana sensazione.
Siamo silenziosi: trovare le parole giuste per concludere un viaggio è difficile… Come trovare la giusta conclusione per un racconto.
Informazioni per partire
Il bagaglio: lo zaino del camminatore deve essere grande ma anche comodo, abbastanza leggero da essere portato per più giorni ma anche con tutto il necessario al suo interno. Uno zaino con queste caratteristiche sarebbe la Pietra Filosofale del trekking. Il percorso proposto non richiede un’attrezzatura particolarmente tecnica, ma è necessario un vestiario per ogni occasione: maglione e giacca a vento per il freddo, magliette per il caldo, impermeabili per la pioggia, crema protettiva per il sole. Migliori sono i capi in microfibra sintetica, che asciugano rapidamente e non restano bagnati addosso.
A questo aggiungete una salvietta, il sacco a pelo, il materassino in poliuretano ed eventualmente la tenda. Inoltre non potrete fare a meno del cellulare e della vostra attrezzatura fotografica, più altre due o tre cosette… Il risultato di questo “stretto indispensabile” sarà uno zaino di una dozzina di chili. Ricordate: al ritorno ci saranno senz’altro cose che non avete utilizzato, ma che se non aveste portato vi sarebbero senza dubbio servite.
Il tragitto: noi abbiamo utilizzato le valide mappe delle Edizioni Multigraphic dei quadranti 506 e 6/8, relativi rispettivamente alle Cinque Terre e all’Appennino Ligure – Riviera di Levante; sono regolarmente in vendita in ogni buona libreria a poco più di 6€. Assai utile è anche la serie di tascabili “Verdeazzurro”, pubblicata nel 1995 dal Centro Sudi Unioncamere Liguri: sono 10 volumetti relativi ad altrettante tappe escursionistiche che conducono da Genova a Portovenere. Procurarseli non è facile, ma uno qualunque di essi risulta utilissimo: in ciascuno si trova la descrizione della tappa e delle varianti con la relativa mappa, ma soprattutto, nelle prime pagine, è riportato un dettagliato schema di tutto il cammino da Genova a Portovenere con lunghezze, dislivelli, tipologia del percorso e prospetto altimetrico.
Per dormire: in Liguria si è sviluppato un turismo sostenibile e responsabile, grazie al quale sono disponibili sistemazioni di ogni tipo ad ogni prezzo. Agriturismo, B&B ed affittacamere sono diffusissimi e quasi sempre rintracciabili via internet: d’altronde, in momenti di grande afflusso (come Pasqua, per esempio), i prezzi lievitano notevolmente e la prenotazione, opzionale negli altri periodi, diventa d’obbligo.
I campeggi sono l’ovvia risorsa per i camminatori squattrinati: spesso offrono anche bungalow, che d’altronde in alta stagione hanno prezzi e richieste paragonabili alle strutture alberghiere. Si può sempre contare sulle economiche piazzole per la tenda, a patto di avere un po’ di spirito di avventura e la voglia di portarsi la tenda sulle spalle quando si cammina.
Non si dimentichino gli ostelli, talvolta poco conosciuti: ce ne sono a Bonassola (www.montaretto.org, 333-6950547), Framura (“Antico Hospitale” in loc. Costa, 0187-823044), La Spezia (ostellotramonti@libero.it , www.comune.sp.it), Levanto (www.ospitaliadelmare.it), Manarola (www.hostel5terre.com), Portovenere (www.ostelloportovenere.it). A Manarola e Portovenere si sono rivelati strutture validissime, supponiamo che anche gli altri non siano da meno. A Portovenere la colazione lascia tremendamente a desiderare, ma la camera è da GrandHotel con vista fantastica. Prezzi tra 20 e 25€.
I mezzi: la ferrovia collega tutte le Cinque Terre con frequenti treni locali (tratta Genova-La Spezia). All’interno del Parco ci si può muovere con le navette (a metano). Quando il mare lo permette, esiste un servizio di traghetti sia tra le Cinque Terre sia tra Genova, Camogli e Portofino.
Su internet: www.parconazionale5terre.it – informazioni sul parco, l’area marina protetta, i musei, i sentieri, la Cinque Terre Card.