Skip to content

Fair Isle, una zattera di pietra

    A nord della Scozia, a metà strada tra l’arcipelago delle Shetland e quello delle Orcadi, la superficie del mare del Nord è rotta da una piccola isola solitaria, ricoperta da prati brucati dalle pecore e circondata da ripide scogliere. Si tratta di Fair Isle, la cui posizione le è valsa l’epiteto di “Britain’s most remote inhabited island”.

    Su questo scoglio sperduto nel mare del Nord, nell’estate 2010 ho trascorso quasi due mesi. Ci si potrebbe chiedere cosa può spingere qualcuno a trascorrere due mesi su un’isola popolata solo da una settantina di persone, circa 300 pecore e un numero imprecisato di conigli selvatici. Fair Isle, quasi sconosciuta alla maggior parte delle persone, è invece notissima tra gli appassionati di birdwatching: durante l’estate, decine di migliaia di uccelli marini vi si danno appuntamento per riprodursi, prima di migrare di nuovo verso sud o verso il mare aperto. L’isola è inoltre sulla rotta migratoria degli uccelli che, dopo avere svernato in Africa o in Europa, volano verso la Scandinavia o la Siberia. Questa sua posizione la rende di notevole interesse ornitologico, tanto da ospitare un noto osservatorio: il Fair Isle Bird Observatory (FIBO).

    Io sono un visitatore anomalo: non sono un birdwatcher. Ho saputo dell’esistenza di quest’isola remota durante i miei studi universitari, grazie ai racconti entusiasti di un mio professore. Al termine dell’università, desideroso di avventura e solitudine, mi sono messo alla ricerca di un modo economico per trascorrere qualche tempo sull’isola. Contavo sulla mia laurea in biologia marina per ottenere un lavoro retribuito al FIBO, magari inserito in qualche progetto di ricerca. Si può comprendere il mio disappunto quando ho saputo che l’unico posto disponibile era come housekeeper… Insomma, avrei fatto le pulizie in cambio di vitto e alloggio, collaborando inoltre alle normali attività di studio quali inanellamento e misura degli uccelli. Non mi è sembrato il caso di fare lo schizzinoso: è un compromesso accettabile per un neolaureato in cerca d’avventura.

    Le difficoltà da affrontare per raggiungere Fair Isle sono quasi proverbiali: il nome stesso, che nell’inglese moderno si potrebbe tradurre con “Isola bella”, ha un’etimologia fumosa e incerta che sembra risalire al norvegese Fjoer, lontano. Per raggiungere l’isola bisogna prima arrivare alla “Mainland”, la maggiore delle isole Shetland, raggiungibile in aereo da Glasgow o in traghetto da Aberdeen. Una volta lì, si può scegliere di raggiungere Fair Isle per via aerea oppure via mare. Opto per la via marittima: tre ore di navigazione a bordo del famigerato Good Shepherd, un piccolo ferry che, in caso di mare mosso, esige nervi saldi e stomaco d’acciaio. Raggiungo l’isola in una bella giornata di sole e mare calmo: tuttavia, dall’entusiasmo con cui me lo fa notare ogni persona che incontro (“Nice weather, ah?”), sospetto che le giornate tiepide e serene come questa siano una vera rarità. Il Good Shepherd approda nella North Harbour, l’unico attracco sicuro dell’isola: a poca distanza c’è l’edificio in legno dell’Osservatorio, dove mi accolgono i wardens Hollie e Deryk Shaw.

    L’Osservatorio Ornitologico è nato nel 1948  grazie agli sforzi di William Waterson: un ornitologo della vecchia scuola, fervido seguace della regola “se vuoi identificarlo, sparagli”. Negli anni le abitudini ornitologiche si sono evolute, ed anche l’Osservatorio: originariamente ospitato nelle baracche di un avamposto militare dismesso, è oggi un accogliente edificio a due piani provvisto di camere per ospitare ricercatori, appassionati di bird-watching e turisti. Il ruolo principale del Fair Isle Bird Observatory consiste nel raccogliere serie storiche di dati sugli uccelli marini e sui migratori di passaggio; serve inoltre da base d’appoggio per i ricercatori che conducono studi sull’isola.

    Hollie e Deryk hanno gestito l’osservatorio per 12 anni e questo è il loro ultimo anno da wardens. Non sono originari dell’isola. La gestione dell’osservatorio è stata un’avventura giovanile che si è trasformata in una scelta di vita: negli anni hanno comprato una casa sull’isola, hanno messo su famiglia, e con i loro quattro figli hanno provocato una vera e propria impennata demografica per l’esigua popolazione locale.

    I miei primi giorni sull’isola sono resi duri a causa della lingua: il mio inglese intorpidito fatica a destreggiarsi tra i numerosi accenti diversi e devo continuamente chiedere “What? Pardon?”. Per fortuna tutti sono molto ospitali e cordiali, e col passare dei giorni la lingua cessa di essere un ostacolo.Ben presto scopro che i miei housework mi impegnano per poche ore al giorno: trascorro il resto del tempo aiutando nelle attività di studio e ricerca.

    Imparo a riconoscere gli uccelli coi nomi comuni inglesi o persino col loro nome scientifico, ma spesso risalgo al loro nome italiano solo in seguito: quindi, per me le sule continuano ad essere gannets, i pulcinella di mare semplicemente puffins, le pavoncelle lapwings. Si creano così divertenti equivoci: ad esempio, mi è capitato di seguire alcuni ricercatori nella ricerca di nidi di starlings e nel censimento dei loro nuovi nati sull’isola. Pesando e inanellando solo i nidiacei ho impiegato giorni prima di scoprire che quelli che inanellavamo, dal nome così musicale, non erano che banali storni.

    Con il personale dell’Osservatorio ho potuto seguire l’inanellamento di puffins (Fratercula arctica), fulmars (Fulmarus glacialis), artic skuas, great skuas (“bonxies”), gannets: l’operazione è spesso delicata, dato che raggiungere i nidi prevede spesso di raggiungere scogli isolati in gommone e calarsi dalle scogliere. Vale la pena aprire una parentesi per descrivere le abitudini di alcuni uccelli e le loro colorite reazioni alle attenzioni dei ricercatori. I puffins (pulcinella di mare), tanto dolci e buffi nelle fotografie, nidificano in fondo a cunicoli scavati nel terreno coi robusti artigli: per agguantarli bisogna infilare tutto il braccio nel terreno; una volta catturati si è sorpresi dal sentirli ringhiare come gatti. I “bonxies” (nome locale dello stercorario maggiore, Catharacta skua) depongono le uova nella brughiera, piuttosto lontano dalla costa. I loro pulcini, che raggiungono e superano rapidamente il peso di un chilo e mezzo, sono grigi e si mimetizzano in modo sorprendente tra gli arbusti e i sassi. E’ tuttavia facile capire quando ce n’è uno nelle vicinanze: i genitori lanciano infatti in picchiate minacciose a pochi centimetri dalla tua testa – un’abitudine degna del film di Hitchcock, e non è rarissimo che gli attacchi simulati sfocino in un impatto reale (a me è successo una volta sola). I fulmars, simili a piccoli albatross, attuano un comportamento difensivo meno spaventevole ma molto più disgustoso: adulti e pulcini si limitano a vomitarti addosso pesce parzialmente digerito con schizzi dalla portata prodigiosa. E’ incredibile quanta di quella brodaglia fetida riescano a produrre, quelle tenere palle di piume bianche.

    Quando non sono impegnato a pulire l’osservatorio o ad agguantare pennuti, faccio lunghe passeggiate solitarie sull’isola. Fair Isle è larga solo due chilometri e mezzo nel punto più largo e si estende per circa cinque chilometri e mezzo dall’estremità settentrionale a quella meridionale, eppure si può camminare per ore senza annoiarsi mai: fino all’ultimo giorno della mia permanenza ho scoperto scorci nuovi ed anche i posti noti si trasformano al variare del tempo. A Fair Isle ogni sasso ha un nome: i suoi innumerevoli toponimi ne raccontano la storia, affondando le radici nelle origini vichinghe dei suoi abitanti. Il tempo è, eufemisticamente, molto variabile: vento, nubi e pioggia in molteplici sfumature (pioggerellina, piovischio, nebbia bagnata, vento umido e così via). Ben presto ci si abitua alla pioggia sottile che va e viene e si impara a decidere i propri piani a prescindere dal meteo: quando spunta un tiepido sole, accende il mare e l’isola di colori inaspettati.

    Durante una delle mie prime peregrinazioni vedo le foche: sono piuttosto comuni, attorno a Fair Isle. Me ne sto seduto su una scogliera, quando vedo i loro capoccioni da cane spuntare dall’acqua: ci osserviamo reciprocamente per un po’ prima di andare ognuno per la propria strada.

    A Fair Isle non c’è scelta: chi non è un birder lo diventa. All’osservatorio le discussioni vertono sulla dimensione delle colonie riproduttive, quali specie stanno migrando, quali i posti migliori per gli avvistamenti. A volte raggiungono l’isola, sfiniti, uccelli tipici del Nord America o dell’estremo Oriente, spinti fuori rotta dai forti venti e dalla giovane età: allora l’intera popolazione di bird-watchers entra in fibrillazione. La biblioteca del FIBO contiene titoli quali: “Bird hybrids”, “a dictionary of birds”, “Il mondo del gabbiano tridattilo”, “Il volo della procellaria”, nonchè “Birders – tale of a tribe” e “How to be a bad birdwatcher” (Come diventare un cattivo ornitologo): quest’ultimo diventa la mia bibbia e guida spirituale.

    La comunità di Fair Isle è piccola e molto unita. Ogni tanto si organizza una festa a cui partecipa tutta l’isola: l’occasione può esser data dal ritorno o dalla partenza di uno degli abitanti, da qualche ricorrenza, ma spesso è solo la voglia di stare insieme. Allora ci si riunisce all’Osservatorio oppure al “Puffinn”, un casolare un tempo deputato alla lavorazione del pesce e oggi usato per dare ospitalità ai volontari che, d’estate, vengono sull’isola per aiutare i crofters (agricoltori) nel lavoro dei campi. Queste feste hanno un sapore antico. Sanno di vecchia casa di campagna, di legno che brucia, di gente che sta bene insieme, e di musica fatta per il piacere di farla e di allietare gli amici. In queste feste, la musica non manca mai. Alle Shetland la musica tradizionale è cosa viva, e numerosi sono coloro che sanno suonare (almeno) uno strumento. Sarà perchè d’inverno c’è poco da fare, e in fondo anche d’estate. Particolarmente diffusi sono i “fiddles”, o violini scozzesi: non sono riuscito a capire se “fiddle” è semplicemente un nome locale per indicare il comune violino, o se effettivamente si tratta di uno strumento dalle caratteristiche proprie. Le melodie suonate sono tipicamente scozzesi, mentre le parole delle canzoni tradizionali sono di origine scandinava: un altro esempio della cultura ibrida di Fair Isle, a metà strada tra i due paesi.

    L’isola sembra fuori dal tempo e dallo spazio. Così piccola, con le sue scogliere a strapiombo, sola in mezzo al mare, mi fa pensare al titolo di un romanzo di Josè Saramago: “La zattera di pietra”. Così la chiamo tra me, affettuosamente; oppure anche the rock, lo Scoglio. Col passare dei giorni lo scorrere del tempo si relativizza e diventa un flusso vago, a cui non si bada troppo. La vita scorre morbida e lenta; il tempo perde il consueto significato: i cambiamenti del tempo meteorologico e i movimenti migratori dei vari uccelli riscuotono molta più attenzione del muoversi delle lancette. Si coglie il trascorrere delle settimane solo perchè la domenica è un po’ diversa dal solito: uova sode a colazione, tovaglioli blu a pranzo, partita di calcio nel pomeriggio. A queste partite ogni tanto mi unisco persino io: si giocano in uno spiazzo d’erba costellato di merde di pecora, tra il Southern Lighthouse e gli scogli battuti dalle onde. Ogni tanto la tranquillità è rotta dall’arrivo di una nave da crociera. La nave si ferma presso la costa e i turisti raggiungono l’isola con dei gommoni: sbarcano, prendono un tè all’Osservatorio, comprano una sciarpa o un maglione di lana delle Shetland come souvenir e dopo poche ore ripartono. Suonano come una nota stonata: tutti noi ci chiediamo cosa ricorderanno della loro visita.

    Eppure, anche se impercettibile, il tempo passa: improvvisamente mi rendo conto che la data della mia partenza dista solo una manciata di giorni. Allora cerco di riempirmi gli occhi di questi prati, scogli e scogliere. Arriva il giorno della partenza: stavolta prendo l’aeroplano, un piccolo Islander a dodici posti che decolla da una pista di terra battuta.

    Decolliamo, e in breve siamo sul mare: voliamo bassi, le onde sotto di noi, Fair Isle che si allontana alle nostre spalle: sembra proprio una zattera di pietra, mi mancherà.

    INFORMAZIONI

    • http://www.fairisle.org.uk e http://www.fairislebirdobs.co.uk presentano tutte le informazioni su come raggiungere Fair Isle, dove pernottare ed i relativi numeri di telefono ed indirizzi email.
    • Per raggiungere Fair Isle può capitare di dover pernottare a Lerwik sulla Main Shetland: in tal caso, l’ostello di Islesburgh ( http://www.islesburgh.org.uk/index.html ) offre una soluzione economica.
    • L’osservatorio ornitologico offre lavori stagionali come aiuto-guardiano, ranger, cuoco o aiuto-cuoco, nonché la possibilità di svolgere volontariato o lavoro alla pari. Un’altra possibilità per conoscere Fair Isle “a basso costo” è quella di svolgere periodi di volontariato da una a poche settimane aiutando i crofters (agricoltori) nel loro lavoro. Tutte le informazioni sui già citati http://www.fairisle.org.uk e http://www.fairislebirdobs.co.uk .
    •  Nella biblioteca del FIBO, insieme a numerose guide ornitologiche e libri sugli uccelli, contiene vari titoli sulla storia dell’isola: molto completo è “FAIR ISLE – an island saga” di Valerie Thom.
    • Informazioni sulle isole Shetland in generale al sito http://www.shetland.org
    • L’isola di Foula ( http://www.foulaheritage.org.uk ), all’estremità occidentale dell’arcipelago delle Shetland, è ancora più piccola e spopolata di Fair Isle: una possibile meta per i più eremitici e temerari.