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Via “Rebuffat”, massiccio del Monte Bianco.

    Aiguille du Midi, 22/07/2011

    A distanza di un anno dal Monte Rosa, rieccomi a scrivere di avventure in alta quota.
    Questa volta l’obiettivo è il massiccio del Bianco: l’idea è di raggiungere il refuge des Cosmiques e lì fare base per il Mont Maudit, il Mont Blanc du Tacul, forse addirittura il Bianco stesso.
    Finalmente si torna a calpestare neve fresca e a boccheggiare nell’aria sottile dei quattromila metri!
    Già pregusto il sole abbagliante e lo scricchiolio della neve sotto gli scarponi.
    In più, sarà l’occasione per rivedere tanti amici pisani, per me che ora sto a Zurigo: la gita è organizzata dal CAI di Pisa e conta ben 28 iscritti.

    All’avvicinarsi della partenza, però, il meteo tenta di rovinarci la festa: una mega perturbazione spazza la Svizzera e si dirige verso Ovest, dritta su Chamonix.
    Che fare? Mi tengo in contatto con il mio “Agente a l’Avana”, l’inossidabile Vitaliano: conto sulla sua proverbiale testardaggine e sono abbastanza fiducioso che, meteo o non meteo, alla fine si partirà.
    Così è: mentre da Pisa si moltiplicano le defezioni, Vitaliano e il solito gruppetto di irriducibili decidono di partire. Appuntamento a Chamonix, che raggiungo in treno.
    Zurigo-Lausanne, Lausanne-Martigny, Martigny-Vallorcine e da lì fino a Chamonix-Mont-Blanc: da Martigny in poi si viaggia sul Mont Blanc Express, un trenino panoramico che viaggia tra gole e precipizi e da solo meriterebbe una gita. Purtroppo il mio sguardo, più che dal panorama, è attratto dai nuvoloni che si addensano e promettono di castigare gli alpinisti testardi.

    A Chamonix siamo sei: oltre a me e Vitaliano ci sono Daniele e Antonio, che avevo conosciuto sul Rosa, e Valerio e Giancarlo che incontro per la prima volta.
    Prendiamo la funivia e cominciamo a salire, in compagnia di un plotone di giapponesi in infradito. Presto la cabina entra in un denso nebbione. L’osserviamo rassegnati, mentre i giapponesi continuano imperterriti a fotografare il nulla fuori dai finestrini e a fare “uuuuuuuuuuh!” quando la cabina dondola sorpassando i piloni. Vorremmo prenderli a scoppinate per renderli partecipi del nostro scoramento, ma ci tratteniamo.

    La funivia raggiunge la vetta dell’Aiguille du Midi, 3842 m. Da qui, col bel tempo, si possono vedere il Bianco, il Tacul, il Maudit, le Grandes Jorasses e il Dente del Gigante. Noi riusciamo a stento a vederci i piedi, ma cominciamo a prepararci.
    Ramponi, imbrago, corde. Mentre ci vestiamo, una solitaria turista inglese è prontamente intercettata dallo sguardo vispo di Vitaliano: ammetto che la fanciulla distrae anche me, così che non mi rendo bene conto di ciò che ci (mi) aspetta. Mi lego a Daniele e Vitaliano e finalmente dò un’occhiata al percorso che ci attende: vedo solo un’esile cresta di ghiaccio che si perde nel bianco; a destra e a sinistra due bei precipizi da manuale. “Fuck! Ma siamo sicuri?” esclamo, mentre l’inglesina se la ride per l’esclamazione anglo-italica e il mio subitaneo cambio d’umore.
    Eh sì, siamo sicuri: il Cosmiques è da qualche parte là sotto. E allora andiamo, e speriamo bene.
    Superata la cresta, c’è il problema di capire dove andare: cielo e neve si fondono in un bel bianco latteo e la traccia per il rifugio è coperta dalla neve fresca. Giochiamo per un po’ a mosca cieca, mentre Vitaliano mi rassicura raccontando di quei due che sono morti congelati in una buca nella neve; oppure della cordata che è rimasta bloccata proprio sotto la stazione della funivia, una notte intera, prima di precipitare a valle.
    Il gioco continua per un paio d’ore, quando dalla nebbia arriva la voce di Valerio: “mi sa che s’è sbagliato, questo crepaccio non dovrebbe essere qui…” A questo punto mi scateno in tutta la mia petulanza: dico che non mi sembra il caso andare a tentoni su un ghiacciaio, che se ci perdiamo nella nebbia è la fine, che zigzagare tra i crepacci è da suicidio, che piuttosto è meglio tornare indietro e passare la notte nei cessi della funivia, ecc. ecc. La cosa incredibile è che alla fine convinco Vitaliano. Stiamo per entrare nella stazione della funivia quando dal bianco riemerge una voce: questa volta non annuncia un crepaccio, bensì il rifugio! Il metodo mosca-cieca ha funzionato. Raggiungiamo gli altri, e alle otto e mezza stiamo cenando al rifugio, prima di trascorrere una bella notte di acclimatamento (ovvero: nausea e mal di testa) in branda.

    L’alba arriva con una sorpresa: invece della nebbia e la neve di ieri, cielo azzurro e aria cristallina.
    La neve fresca rende infattibili Bianco, Tacul o Maudit. Invece l’obelisco granitico dell’Aiguille du Midi è proprio qui a due passi, la parete verticale è quasi sgombra di neve e riluce al sole… Perchè no?
    Raggiungiamo la base e ci prepariamo a salire il pilastro Sud lungo la via classica che Gaston Rebuffat vi aprì nel 1956.
    Ci dividiamo in due cordate da tre: mi lego con Giancarlo e Valerio, che apre. Io non arrampico da mesi e sono ben felice di salire da secondo (anzi, da terzo).
    All’inizio la ruggine si fa sentire: mentre salgo il primo tiro sono quasi pentito e vorrei essere da un’altra parte.
    Poi mi rilasso, mi godo questo granito solidissimo a cui non sono abituato e comincio a divertirmi.
    La via è una vera classica: si sviluppa lungo diedri, lame e fessure in modo logico ed elegante. Per me, arrampicatore di falesia abituato a seguire gli spit è una bella novità vedere Valerio “leggere la roccia” e salire piazzando le protezioni.
    A volte ci troviamo tutti e tre in sosta, sotto il tetto del primo tiro o su una cengia coperta di neve, e ci interroghiamo sul tracciato da seguire: ci chiediamo dove sarebbe passato l’apritore, ci immedesimiamo, nel dubbio ci diciamo “Rebuffat sarebbe passato di lì!” Mi piace, questa sorta di dialogo con l’apritore della via che si snoda attraverso il tempo. Si immagina il suo pensiero ed è un po’ come arrampicare con lui; ed è frustrante pensare che io, con le mie belle scarpette tecniche, non riesco a passare dove lui saliva in scarponi.
    D’altronde io sono io, mentre lui era Rebuffat.

    A due tiri dalla vetta la roccia si fa sempre più fradicia e depositi di neve impediscono di proseguire. Ci rassegniamo a scendere.
    Valerio ci rimane male: ha tirato la cordata fino a qui e gli dispiace non concludere. D’altronde la parte più bella e dura della via è fatta: io sono più che soddisfatto e anche Giancarlo, che soffre l’altitudine e l’idea di abbassarsi di 200 metri certo non gli dispiace.

    Prepariamo le corde per le calate in doppia e cominciamo a scendere. Come da manuale, le corde si incastrano ben due volte. La prima, prima ancora di iniziare la discesa, costringendo Giancarlo a una risalita da funambolo su un chiodo precario; la seconda, a mo’ di sfottò, a 5 metri da terra. E’ di nuovo Giancarlo a liberarla, sfavato al punto da risalire slegato e in calzini (vedi foto!).

    Mentre torniamo al rifugio la giornata si guasta di nuovo, ma ci auguriamo che si ripeta il copione di ieri e che domattina torni il sereno.
    Al Cosmiques nel frattempo sono arrivati anche Alessio e Francesco, che hanno fatto la traversata dal Rifugio Torino. Otto su 28, non è male!
    Si mangia, si beve, si scambiano racconti, ognuno esagerando quanto basta.
    Speranzosi abbozziamo l’idea di salire il Tacul, o almeno di percorrere l’aerea Arête des cosmiques.
    Stavolta però il tempo non fa che peggiorare: il nevischio del giorno prima si fa più insistente e accompagnato da un vento tagliente.
    Ci dirigiamo alla funivia per la stessa via dell’andata.
    La cresta prima della stazione è ancora più affilata e la percorriamo con un traverso da brivido: la differenza rispetto alla prima volta è che la visibilità è migliorata, così siamo ben coscienti del precipizio sotto di noi. Alla fine, subito prima del cancelletto della funivia, troviamo una troupe francese accorsa a documentare questa bufera di neve in piena estate e ad intervistare “les alpinistes Italiens”.

    Inutile dire che l’attitudine all’esagerazione propria dei cronisti si sposa in pieno con quella degli alpinisti, e il risultato è un servizio di telegiornale che fa apparire questo po’ di vento e neve come una tempesta himalayana.

    Tanto meglio: lo racconteremo ai nipoti, di quella volta che si è scalata l’Aiguille du Midi nella bufera. Con tanto di prova video.

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